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Emergenza Corona Virus > Aprile 2020
Riflessione del 01 04 2020 MERCOLEDÌ V SETTIMANA DI QUARESIMA
Vangelo (Gv 8,31-42)
Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.
Nel contesto della festa dei Tabernacoli, Gesù continua ad insegnare a quel gruppo che ora viene definito i “Giudei che avevano creduto in lui” (v. 31). Sono approdati a una fede parziale e adesso Gesù cerca di condurli alla fede autentica. Li esorta a “perseverare”, “continuare” e “rimanere” nella sua parola. C'è una dinamica nel viaggio della fede: da una fede parziale a una fede totale; a questa si giunge decidendo di intraprendere quel viaggio col “rimanere” nella sua parola, e impegnandosi ad accoglierla.
Il discepolo, infatti, è colui che sceglie di permanere costantemente alla scuola del Maestro, non è fermarsi ad una adesione momentanea, ma vivere la “costanza nella fede” che ne determina il suo carattere. L’impegno iniziale deve diventare fede autentica. Non si tratta soltanto di “seguire” Gesù (8,12) o di “credergli” (8,31), ma di “rimanere” nella sua parola, di assimilarla, vivere di essa e scoprire che è parola di Dio. Dunque, il vero discepolo non è solo colui che crede, ma soprattutto chi accoglie, penetra e vive la parola di Dio, dimorando in essa. L’unione con Gesù nella penetrazione della sua parola e nel dono di questa ai fratelli è ciò che caratterizza il discepolo. Questo porta a conoscere la “verità”, cioè la rivelazione della persona di Gesù, e permette di sperimentare la sua presenza salvifica e liberatrice.
La parola “verità”, secondo la sua etimologia ebraica (’emeth), indica ciò che “dà sicurezza”, “solidità nell’essere”; inoltre, quando è usata per qualificare il rapporto durevole e approfondito tra due persone, equivale al concetto di “fedeltà”, termine che caratterizza il Dio dell’Alleanza. La verità che “Gesù-Verità” ha e dona all’uomo fa di quest’ultimo partecipe della libertà stessa di Dio. Essere discepoli, dunque, vuol dire lasciarsi ammaestrare interiormente dallo Spirito di Cristo e dalla sua Parola.
La verità, per i giudei, era “la legge” e questa li rendeva liberi. Per Gesù, la verità è il messaggio che egli proclama all’uomo, è il mistero della sua persona che si svela nel piano salvifico di Dio, dal quale il credente deve lasciarsi guidare e con il quale deve instaurare una relazione intima e vitale. Per il discepolo, la verità deve diventare un nutrimento; essi devono impegnarsi ad assimilarla per acquistare il senso della verità, il senso di Cristo. Così i credenti diventeranno progressivamente figli della verità, discepoli del “Cristo-Verità” o, come diceva san Gregorio, “strumenti della verità, anime tutte risplendenti della luce della verità”. La verità è costruire ogni giorno nella propria storia il disegno di Dio già compiuto da Gesù.
“I Giudei” pensavano di non avere bisogno di questo genere di libertà di cui Gesù aveva parlato (v. 33). Essi sono liberi perché “discendenti di Abramo”. Insistono che non sono mai stati schiavi di nessuno e mettono in dubbio la capacità di Gesù di condurli alla libertà (v. 33b).
Siamo di nuovo davanti a uno scontro tra due diversi modi di capire come Dio possa essere conosciuto. “I Giudei” si vantano di essere liberi perché sono “discendenza di Abramo” (v. 33), ma Gesù replica che la “discendenza fisica non è il metro appropriato per sentenziare su libertà o schiavitù” (v. 34). Il peccato è schiavitù, ma il peccato nasce da ciò che la persona “fa”: “chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”. Questo “non dipende dalla discendenza”.
Essi si sentono liberi per l’appartenenza alla discendenza di Abramo, eredi delle promesse di Dio, e schiavi di nessuno (cf. Gn 16,1-16; 21,1-14). La sicurezza di sé non permette loro di capire che Gesù sta parlando di una “libertà religiosa” che va oltre quella “politico-sociale”. La pronta e chiarificatrice risposta del Maestro toglie ogni equivoco tra i suoi interlocutori: “Chi commette il peccato è schiavo del peccato” (v. 34). Non basta discendere dalla stirpe di Abramo per far parte della sua eredità spirituale. Chi fa il peccato è schiavo, anche se discende per via di sangue da Abramo. Gesù vuol parlare, nel v. 34, della “schiavitù” e della “libertà” morale nei riguardi del peccato e non di altro, e sviluppa questo tema ricorrendo all’immagine dei due figli di Abramo: “Ismaele”, quello nato da Agar, la schiava, e “Isacco”, quello nato da Sara, la donna libera (cf. Gn 21,9-10; Gal 4,22-23.30): “Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre” (v. 35). Il fatto di essere della stirpe di Abramo, come questi suoi figli, non dà diritto ad essere uomo libero. La libertà scaturisce dalla promessa e dalla Parola di Dio. Gesù è il vero «libero», perché Figlio di Dio e Parola dell’amore del Padre.
Il v. 35 (“Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre”) oltre a fare riferimento ad Abramo e ai suoi due figli: “Isacco”, il libero, e “Ismaele”, lo schiavo; vuole mettere in evidenza il parallelismo tra “Gesù e Isacco” (figli liberi). Il successivo riferimento a Ismaele è un richiamo a coloro che sono schiavi perché appartengono al “mondo”, si lasciano prendere dalle cose del “mondo”.
Quindi, nel parallelismo tra Isacco e Gesù, il testo evidenzia che Isacco nasce per opera della “Parola-promessa” di Dio, che attraverso di lui mirava alla creazione di un popolo (Gn 12,3; 17,4.19). Gesù è la formulazione nella “carne” della Parola creatrice che compie finalmente la promessa fatta (1,14). Dunque, il Cristo, come Figlio di Dio obbediente e docile, che vive nella casa del Padre in comunione intima con lui, “possiede la libertà” e la può comunicare ad altri. Gesù allora, dicendo: “Se dunque il figlio vi farà liberi, allora sarete realmente [figli] liberi” (v. 36), invita i giudei a lasciarsi liberare da lui stesso e a ritrovare la propria origine di figli vivendo in comunione con Dio, in un rapporto simile a quello che lui vive con il Padre.
Egli sa bene che i suoi interlocutori sono “stirpe di Abramo”, ma loro non accolgono la sua parola e la sua persona, questo significa che non basta una discendenza etnica, occorre soprattutto quella spirituale, la stessa che Abramo aveva ricevuto da Dio. Purtroppo essi hanno perso tale figliolanza, non assomigliano più al loro grande patriarca Abramo, l’uomo di vera fede, ed hanno rinnegato con il loro modo di comportarsi questa origine. Gesù sottolinea la propria fedeltà al Padre, quando afferma di trasmettere solo le cose che ha udito dal Padre suo.
Di fronte a questa conclusione, che il Maestro ha evidenziato nel suo discorso, cioè di una duplice paternità, quella della sua persona e quella dei suoi avversari, questi scatenano una nuova reazione, dopo aver affermato ancora: “Abramo è nostro padre” (v. 39a). Gesù questa volta sottopone alla loro coscienza il loro modo di comportarsi: “Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo” (v. 39b). Il santo patriarca avrebbe certamente accettato la verità di Gesù che essi invece vogliono eliminare, e dunque se loro intendono essere suoi figli devono imitarlo nell’agire.
Il Rabbi di Nazareth ha dimostrato così che il loro vero padre non è né Abramo, di cui non imitano le opere, né tantomeno Dio, che ha mandato Gesù come suo rivelatore, che essi rifiutano e vogliono uccidere.
Oggi, alle 12 ?? celebrerò la divina Eucaristia in comunione con tutti voi