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Emergenza Corona Virus > Aprile 2020
Riflessione del 08 04 2020 MERCOLEDÌ DELLA SETTIMANA SANTA
Vangelo Mt 26,14-25
Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito!
Il racconto del Vangelo di oggi è preceduto dall’episodio dell’unzione di Gesù a Betània; possibilmente Matteo desidera mettere in perfetta e drammatica antitesi l’atteggiamento di questa donna pronta all’accoglienza rispetto a quella di Giuda Iscariota, il quale si reca presso i sommi sacerdoti per vendere il Signore (vv. 14-16).
Il dialogo con le autorità religiose assume una forma di baratto: Giuda è disposto a consegnare Gesù a condizione di ricevere del denaro. Non sembra sia un prezzo pattuito, non si dice nulla di un accordo, pare sia più un premio concesso spontaneamente dalle autorità. Le “trenta monete” costituiscono il prezzo di risarcimento per la perdita di uno schiavo (cfr. Es 21,32). L’amore alle ricchezze (cfr. 6,24) è sempre un pericolo da cui occorre mettersi in guardia (cfr. Gv 12,6). A raccontarci questo particolare delle monete è un’esclusiva del Vangelo di Matteo, proprio quante, secondo Zc 11,12s, i mercanti della legge ne consegnavano al pastore per il servizio compiuto.
La scena evidenzia la duplice ingiustizia, di Giuda e dei sommi sacerdoti, perché entrambi hanno una condotta contraria ai precetti della “Torah”; la legge, infatti, protegge l’innocente dall’inganno e dal tradimento.
Non si conosce l’esatto significato dell’appellativo di “Iscariota” attribuito a Giuda dalla comunità cristiana, secondo alcuni potrebbe derivare dal persiano “Isk Arioth”, ovvero “colui che serve” oppure “colui che sa”; sembra più probabile una provenienza dall’aramaico “sheparya” che significa “falso”, “traditore”.
Il racconto della “cena” in Matteo, parallelo a quello di Marco (14,12-21) è formato da tre momenti: la preparazione (vv. 17-19), il rito giudaico (vv. 20-25), il nuovo rito cristiano o l’istituzione dell’eucaristia, che non è inserito nella nostra pericope (vv. 26-30). È evidente che i racconti tendono verso questo terz’ultimo.
Il Cristo di Matteo non perde il controllo della situazione, gestisce anche il momento conclusivo della sua vita, è arrivato “il suo tempo” (v.18), la fase culminante della sua missione. Con questa premessa Gesù fa comprendere che la Pasqua che sta per celebrare sarà l’ultima associando il suo destino a quello “dell’agnello” che si immolava in ricordo di una liberazione che doveva ancora venire.
Il convito pasquale era a base di pani azzimi, di agnello, di erbe, di vino, di dolce ecc. I pani azzimi o “massôt” erano delle schiacciate, che dovevano ricordare la fretta con cui gli ebrei avevano lasciato l’Egitto. “L’agnello” veniva immolato nel tempio e preparato senza rompergli alcun osso, poiché simboleggiava Israele, intero e indivisibile. La sua “immolazione” ricordava il sangue con cui erano stati aspersi gli stipiti delle case giudaiche nella notte dell’esodo. I cinque tipi di “erbe amare” rammentavano le sofferenze sopportate in terra straniera; il “vino rosso” richiamava le percosse, le angherie, il sangue versato sotto la sferza degli aguzzini egiziani; il dolce, “harôsset”, dal colore del mattone rievocava le malte e i mattoni che avevano dovuto impastare durante il periodo della schiavitù.
Il rito della cena era lungo, ma il nostro evangelista ha più interesse di raccontarci la figura principale del Cristo dando prova della sua autorità e non lo svolgimento del pasto.
Durante la grande festa della cena, Gesù, non con termini risentiti o alterati, ma con calma e signorilità, interrompe per annunciare il tradimento. I discepoli amareggiati cercano di individuare il traditore e per ben undici volte riecheggia l’appellativo “Kyrios” (Signore). È interessante che ognuno dei commensali interroga il Maestro: “Sono forse io, Signore?”. Sembra quasi che il nostro evangelista vuole coinvolgere anche il lettore; tutti lo chiedono, anche io che sto leggendo il testo: “Sono forse io, Signore?”; posso essere io tra i discepoli che partecipo alla sua mensa e contemporaneamente tradire il Signore? È una domanda che tutti ci portiamo dentro.
La stessa domanda viene ripetuta da Giuda, che sta per consegnare Gesù. È da notare che questo dodicesimo discepolo non lo chiama più “Signore” ma “Rabbi”.
Considerare Gesù come “maestro” di vita, e non come “vita”, è già tradirlo. Gesù, da maestro, diventa il Signore proprio quando capisco che mi è fedele nella mia infedeltà, che si dona a me che lo tradisco. I pensieri di Dio sono sempre più grandi di quelli degli uomini, e il mistero dell’uomo e delle sue azioni è sempre più grande di quello che egli stesso possa comprendere.
Oggi, alle 12.00 celebrerò la divina Eucaristia in comunione con tutti voi