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Riflessione del 10 04 2020 VENERDÌ SANTO - PASSIONE DEL SIGNORE
Vangelo Gv 18,1- 19,42
Passione del Signore.
Il racconto della passione in Giovanni si avvicina molto a quello dei sinottici, eppure nonostante le somiglianze, vi sono delle importanti differenze nel quarto vangelo, nelle quali si manifesta tutta l’originalità del messaggio dell’evangelista. Tali differenze creano un ambiente molto diverso rispetto a quello dei sinottici e ci aiutano a cogliere la particolarità del messaggio che il quarto Vangelo ci vuole comunicare. In cosa consistono queste diversità? Rispetto agli altre tre Vangeli ci sono delle “assenze”, cioè “omissioni intenzionali”, ma anche delle particolarità che sono esclusive del racconto giovanneo della Passione.
Nelle “assenze” notiamo innanzitutto come Giovanni non parli del “Getsemani”, che ha invece anticipato in occasione della richiesta dei Greci di vedere Gesù (Gv 12). Tale omissione non significa affatto che l’autore ignori il Getsemani, ma manifesta una sua intenzione peculiare: togliere tutti i tratti che possono offuscare la dignità di Gesù. Così si omettono anche i particolari dolorosi della passione, come le “spinte”, le “botte”, le “genuflessioni di burla” da parte dei soldati. Tutto questo è funzionale al messaggio che egli vuole trasmetterci. Il valore della Passione di Gesù, più che nel suo aspetto doloroso, sta nel fatto dell'essere “frutto di un dono”, di una “scelta volontaria”, di una “libertà totale”, dell’essere vissuta in piena coscienza e conoscenza. “Colui che si dona fino alla morte dà a questa morte una dignità senza pari”.
Per questo non troviamo neanche un particolare storico ben noto, come quello del “Cireneo” che aiuta Gesù a portare la croce. Infatti “nessuno” può veramente portare quella croce che è “rivelazione dell’amore di Dio sul mondo”. Si comprende allora come Gesù ricordi a Pietro che non gli sarà possibile seguirlo su quel cammino finché non si sia compiuta la sua Ora; “Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi, mi seguirai più tardi” (Gv 13,36).
Altre omissioni significative sono gli “insulti” e i “dileggi” sotto la croce, la presenza delle “tenebre” dall’ora sesta all’ora nona. Tutto è un richiamo al dono che Gesù fa di se, alla luce della sua gloria, non c’è buio, né oscurità ma è la gloria della donazione e dell’amore che si rende pienamente manifesta.
Significativo è anche cogliere alcuni tratti tipici ed esclusivi del racconto giovanneo della passione.
In primo luogo Giovanni insiste su tutti gli elementi che mostrano come la passione di Cristo sia stata un “dono d’amore” e non conseguenza della sua debolezza. Si vuole illustrare qui la verità della parabola del “pastore bello” delle pecore: “per questo il padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo... Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso...” (cf Gv 10).
Questo aspetto si può ben vedere ad esempio nel racconto dell’arresto di Gesù. Di fronte alla sua maestà, che egli manifesta nei suoi gesti e in quell’affermazione “Io-Sono”, coloro che sono venuti a catturare Gesù “arretrano” e “cadono” per terra. Essi non potrebbero mai arrestare Gesù, se non fosse lui stesso a consegnarsi loro liberamente. Lui stesso, a coloro che sono venuti a catturarlo, impartisce il comando che non facciano alcun male ai suoi discepoli. Ancora una volta Egli appare come “il pastore” che dona la sua vita a vantaggio delle sue pecore! La stessa libertà nell’interrogare, nell’aiutare a riflettere, Gesù la manifesterà davanti al Sinedrio riunito in casa di Anna e davanti al rappresentante del potere umano dell’epoca, l’impero di Roma.
Un secondo tratto che il quarto Vangelo sottolinea è quello della “regalità di Gesù”. Il racconto della passione viene strutturato in modo da suggerire che il suo svolgimento è simile alle tappe di un “intronizzazione regale”. Si inizia con il riconoscimento del titolo (“Dunque tu sei re” nel dialogo con Anna e Pilato 18,37); si incorona Gesù (incoronazione di spine 19,2); lo si presenta alla corte e al popolo (“ecce Homo; ecce rex vester”19,5); si annunzia la sua costituzione a Re alle varie nazioni (il cartello posto sulla croce nelle tre lingue 19,19); lo si intronizza (la crocifissione 19,23) e lo si ammira nella sua regalità (la contemplazione del costato trafitto 19,34). Infine alla sera il Re si corica nel suo talamo regale (la sepoltura 19,41).
La categoria della regalità esprime bene l’idea di una mediazione universale. Proprio assumendo l’umano fino alle sue estreme conseguenze (morte e sepoltura) Gesù può essere il mediatore per tutti gli uomini, rappresentare la regalità di Dio sul mondo. Si pensi qui al brano della tunica di Cristo e del mantello diviso in quattro parti, che indica simbolicamente la portata universale di questa morte (quattro parti!) e la sua capacità-efficacia di riunire un popolo nuovo intorno al suo capo.
Gli antichi autori vedevano raffigurato nelle vesti e nella tunica il mistero della Chiesa, corpo di Cristo. Le vesti, distribuite in quattro parti, allude ai quattro punti cardinali, indicano l’universalità: il corpo del Figlio è per tutti i fratelli. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio (3,16), perché vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1Tm 2,4). La tunica invece indica il mistero della integrità/unità: l’unico corpo donato rende ognuno figlio, unito al Padre e ai fratelli. Infatti, se il dono è “per tutti” ed è tutto “per ciascuno” - Dio è amore e non può dare meno di se stesso -, essendo Dio unico, ne consegue che tutti noi siamo una cosa sola con lui e tra di noi (cf. 17,11.21-23). La tunica, è la parte più intima delle vesti che si porta sotto il mantello, come le vesti, indica la persona/corpo, tuttavia evidenzia un intento particolare: “non va squarciata”. Il verbo “squarciare” (skízo) richiama “scisma”, la “divisione”. È l’immagine dell’unità della Chiesa, corpo del Figlio, che non deve quindi essere infranta. Ricorre anche nella pesca miracolosa, in un contesto chiaramente ecclesiale: la rete, nonostante il grande numero di pesci, non si squarciò (21,11).
Chiunque riceve le vesti di Gesù, è rivestito di lui e forma un solo corpo con lui e con gli altri. Uniti al Figlio, siamo una cosa sola con lui, con il Padre e tra di noi.
La regalità di Gesù è la regalità del mediatore supremo tra Dio e gli uomini.
In terzo luogo, e questo è l’aspetto teologicamente più importante, Giovanni presenta la morte di Cristo come “rivelazione”. Tutta una serie di particolari narrativi è al servizio di questa intenzione. Si pensi al fatto che non ci sono tenebre in questo giorno, ma che l’ultima ora menzionata è proprio il “mezzogiorno” (Gv 19,14). Il luogo della sepoltura è un “giardino”, i profumi per la sepoltura sono aromi nuziali.
Ancor più importante è però il particolare del “costato trafitto”, dal quale “esce sangue ed acqua” con riferimento brano misterioso di Zc 12,10 “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. Ebbene questa citazione può essere la chiave per comprendere il significato ultimo della passione secondo Giovanni. Zaccaria parlava profeticamente di un misterioso dolore di Dio, che si sentiva come trafitto per la morte di un Re-Pastore. Questa morte è come uno squarcio nel cuore di Dio, e da questo squarcio sgorga la possibilità di una riconciliazione tra Dio e il suo popolo. Giovanni vuole proprio dirci che la morte di Cristo è rivelazione dell’amore di Dio sul mondo. Da questa morte sgorga per l’uomo la possibilità di una vita nuova. L’evangelista presenta la morte nella luce della risurrezione e così il giorno della morte, reso luttuoso da questo evento, diventa massimamente glorioso poiché su di esso si proietta la gloria della Pasqua.
In altre parole la risurrezione di Cristo non viene a chiudere con una parentesi un brutto episodio, possibilmente da dimenticare, bensì è come l’espressione suprema dell’amore di Dio, che per salvarci ha assunto la nostra condizione mortale fino alle ultime conseguenze. Cosi la croce è diventata gloria, cioè manifestazione di Dio, innalzamento, esaltazione.
Il corpo trafitto di Gesù morto e risorto diventa il tempio della nuova Alleanza, da cui sgorga il fiume di vita cioè lo Spirito. Ecco perché Gesù muore non tra lamenti, ma con un grido trionfale: “tutto è compiuto” (Gv 19,30); così pure la morte coincide con il dono dello Spirito. Infatti il testo greco più che di uno “spirare” di Gesù parla di un Gesù che “consegna lo Spirito”. Se l’atto di Gesù non è solo il morire di un uomo, ma rivelazione dell’amore di Dio sul mondo, quella morte è offerta della vita per l’uomo, è un trasmettere lo Spirito. Quanto Gesù farà la sera di Pasqua nell’incontro con i discepoli quando aliterà su di loro comunicando lo Spirito, non è che il frutto di questa morte. Infine bisognerebbe rileggere tutto il vangelo di Giovanni come tendente a questo compimento. Già nel prologo vi è un’allusione alla morte di Cristo: “e il Verbo si fece Carne”, “e pose la tenda tra di noi” (1,14 il piantare la tenda allude ancora una volta a una condizione passeggera, di pellegrinaggio, a un dover partire). Anche il primo dei segni compiuti da Gesù tende verso quest’Ora di Cristo (Gv 2,4). L’Ora di Cristo è la sua passione e morte, in quanto è il momento di passare da questo mondo al Padre e di esprimere fino alle ultime conseguenze il suo amore per i “suoi”.
Oggi, alle 15.30 ?? celebrerò la Liturgia della Passione in comunione con tutti voi