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Riflessione del 19 04 2020 II DOMENICA DI PASQUA "in albis" o della Divina Misericordia
Vangelo II DOMENICA DI PASQUA "in albis" o della Divina Misericordia (ANNO A)
Gv 20,19-31
Otto giorni dopo venne Gesù.
Del Vangelo di oggi sicuramente il personaggio che ci rimane impresso è l’apostolo Tommaso. Popolarmente questa domenica fino a qualche anno fa era detta di “San Tommaso”. San Giovanni Paolo II nel 2000 istituì la festa della Divina Misericordia proprio in questa domenica. Tuttavia la domenica in questione liturgicamente conserva anche un altro nome quello di “domenicae in albis deponendis”. Coloro che, nell’antichità, durante la veglia di Pasqua venivano battezzati, per tutta la settimana partecipavano alla celebrazione eucaristica con la veste bianca ricevuta al battesimo. Durante queste celebrazioni i vescovi tenevano delle vere e proprie omelie mistagogiche, ossia spiegavano le varie verità cristiane contenute nelle parole e nei gesti della liturgia. Infatti i catecumeni non potevano partecipare alla celebrazione eucaristica per intero, dopo l’omelia dovevano lasciare l’assemblea. Solo con il battesimo erano ammessi a partecipare alla Preghiera Eucaristica e alla Santa Comunione. Di questi insegnamenti ricordiamo due opere principali di Ambrogio: il De Mysteriis e il De Sacramentis.
Per tutta questa settimana che intercorre tra la domenica di Pasqua e la seconda domenica di Pasqua, i cristiani non lavoravano. L’ottava è considerata come un unico giorno festivo, per cui si astenevano dal lavoro per far memoria della vittoria di Cristo sul peccato e la morte, far memoria dell’amore che Dio ha per noi e per quale si è impegnato in prima persona per la nostra salvezza. Verso l’ottavo secolo si iniziò a ridurre il riposo da una settimana a quattro giorni. Sebbene il Decreto di Graziano (antica raccolta del diritto canonico) statuisse che tutta la settimana doveva essere di riposo, già nel XII secolo si praticava il riposo fino alla feria III, ossia il martedì dopo Pasqua. Questa disciplina è rimasta così fino al XIX secolo, quando fu ridotto ad un solo giorno, ossia il lunedì dopo Pasqua. Questo per dire come questi otto giorni, erano ritenuti importanti per la formazione catechetica e spirituale dei neofiti e di tutti i cristiani. Al vertice di questo percorso la Chiesa ha posto questa splendida pericope del Vangelo di Giovanni 20, 19-31.
Il nostro brano possiamo dividerlo in due grandi sezioni:l’apparizione ai discepoli (20, 19-26); e l’apparizione a Tommaso otto giorni dopo (20, 26-29).
Gesù si presenta proprio la sera del quel giorno v. 19, è un indicazione di tempo che noi comprendiamo solo alla luce del v. 20,1. Era la domenica subito dopo la morte di Gesù, per intenderci è il giorno della risurrezione di Cristo. Al mattino era apparso a Maria di Magdala, la sera invece Gesù si manifesta ai sui discepoli.
«Pace a voi» v. 19, può sembrare il classico saluto ebraico: Shalom. Non è un saluto, Gesù non sta dicendo “ciao” agli amici (cfr. Gv 15,14) che non vede da alcuni giorni. Questo saluto è un preludio della scena che si sta svolgendo. Il Risorto si manifesta nella sua natura umana e divina. È la stessa Scrittura a dircelo. Quando l’angelo del Signore si manifesta a Gedeone, questo viene saluto dall’angelo con l’espressione «Pace a te; non temere; non morirai» Gdc 6,23. Con queste parole Gesù manifesta il suo nuovo stato di risorto, in lui si è realizzata pienamente la salvezza dell’umanità.
«Mostrò loro le mani e il costato» v. 20, il Cristo risorto si presenta con tutta la sua corporeità. L’immagine che l’evangelista ci vuole offrire è quella della continuità tra il Gesù inchiodato sulla croce, e il Cristo risorto che si presenta ai discepoli. Colui che è morto in modo disonorevole, ora è lì di fronte ai loro occhi nella sua gloria.
«Soffiò» v. 22, è un gesto carico di grande significato simbolico e teologico. Ci ricorda Dio che nella creazione soffia un alito di vita nelle narici di Adamo, il quale diventa un essere vivente (cfr. Gen 2,7). Gesù è la fonte della vita. In realtà il vero morto non è Gesù, ma sono i discepoli che hanno perso la speranza messianica, alitando su di loro non fa altro che ridare ai discepoli la vita, la vita nuova. Inoltre, nella Chiesa antica si praticava un antico rito quello dell’ordinazioni per insufflazione. Era usanza presso la Chiesa copta raccogliere in un otre l’alito del patriarca di Alessandria d’Egitto, poi l’otre veniva mandato al nuovo Abuna, capo della Chiesa copta etiope, e veniva aperto su di lui, in questa maniera veniva garantita la successione apostolica. Tutt’oggi il vescovo quando compie la benedizione dell’olio del crisma, durante la messa crismale, soffia sull’olio mentre lo benedice. Gesù alitando sui discepoli ci ricorda la potenza rigenerativa dello Spirito Santo che rinnova l’uomo e il cosmo nell’orizzonte della Risurrezione. In questa maniera sono consacrati per il servizio del Vangelo: «come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» v. 21.
«Ricevete lo Spirito Santo» v. 22, questo versetto sembra molto complicato da spiegare, perché ci sembra in contrasto con la Pentecoste, così come ci viene raccontato da Luca in At 2. La Pentecoste è la festa del 50° giorno dopo la Pasqua e secondo Luca è in questo giorno che lo Spirito Santo ricolma i discepoli, segnando l’inizio della Chiesa. Giovanni invece ci dice che i discepoli ricevano lo Spirito proprio il giorno della risurrezione. Ciò non rappresenta una vera divergenza. Il dono di Cristo in questa fase vuole essere un modo per aiutare i discepoli a comprendere la risurrezione e a diventarne messaggeri, li prepara per la nuova Pentecoste.
Che cosa fa Gesù morendo? «chinato il capo, consegnò lo spirito», (19,30), ma all’inizio Giovanni ci ha raccontato la testimonianza del Battista: «ho contemplato lo Spirito discendere come colomba … e rimare su di lui» (1, 33) e aggiunge l’evangelista: «colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo» (1,33). Gesù si presenta nella sua intima relazione con il Padre, con la risurrezione questa relazione non rimane chiusa, ma viene dischiusa a noi: «non vi lascerò orfani: verrò da voi» (Gv 14,18) è la prima promessa che Gesù esaurisce. Siamo anche noi condotti a vivere la relazione con il Padre nella verità, mediante l’amore trinitario cioè lo «Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,17). Dunque, la Pentecoste giovannea vuole essere il dischiudersi della nuova relazione, che Dio in Cristo Gesù apre a noi tutti, quella nuova ed eterna alleanza che Cristo pattuisce, facendoci così sui coeredi, figli adottivi del Padre (cfr. Gal 4,4).
Ricevendo lo Spirito i discepoli possono ascoltare e annunziare. La fede nasce dall’ascolto, ma non rimane un fatto intimistico, la potenza del Vangelo è tale che deve essere annunciato. Se il centro del nostro annuncio è la morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo, la conseguenza di ciò è l’infinita misericordia di Dio. E il brano al v. 23 ci trasmette questo messaggio: «a color a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Ecco come Dio esercita la sua misericordia, che trascende il tempo e gli uomini. In questo versetto il magistero e la Tradizione della Chiesa vi hanno letto quella misericordia di Cristo che con il suo annuncio da noi ascoltato ed accolto, ci apre la strada della salvezza. Salvezza che deriva nell’entrare nella vita pasquale di Gesù mediante il sacramento del battesimo, che perdona i nostri peccati e ci fa figli adottivi del Padre. Ciò implica uno stile di vita della comunità cristiana, cioè di ognuno di noi che si professa come tale, il quale non può vivere se non secondo la misericordia di Cristo. Ogni cristiano deve ritenere suo avversario il peccato, suo fratello il peccatore. Infatti Gesù è morto per i peccatori. L’annuncio del Vangelo non può prescindere dalla misericordia. Tuttavia ci sono peccati che chiamiamo mortali (cfr. 1Gv 5,16), anche per questi Dio nella sua compassione per noi ha stabilito un atto di misericordia, e il v. 23 ne è la norma evangelica; è il dolce e sublime sacramento della riconciliazione con il quale vengono cancellati i nostri peccati, e siamo rinnovati nel nostro battesimo.
«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» v. 25. Da allora sono passati duemila anni, ma questa scena si è impressa in maniera indelebile nella vita dei credenti e non, da essere quasi universalmente risaputa. In Tommaso tutti prima o poi ci siamo riconosciuti. Razionalisti, agnostici, semplici increduli, anche nella vita di tutti i giorni l’abbiamo additato come nostro esempio. Siamo convinti che con la vista possiamo trovare la verità, conoscerla, dominarla. Alla vista non può sfuggirci il reale. Crediamo che con la vista possiamo toccare il vero e il reale. Eppure la vista non è di così grande attendibilità, e la stessa scienza che ce lo dice. Quando vediamo le cose, dobbiamo calcolare la distanza della luce che riflette l’immagine, ciò significa che qualsiasi cosa vediamo con i nostri sensi biologici sono immagini di qualche minuto prima.
Sebbene Tommaso lo dica nell’impeto del suo carattere, si dimostra come un uomo privo di speranza, benché non gli manchi il coraggio. Quando Gesù decide di andare dal povero Lazzaro morto, è proprio Tommaso che esorta gli altri discepoli «andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11, 16). Tuttavia, Tommaso non era ai piedi della Croce. La psicologia che l’evangelista traccia di Tommaso è tale che potremmo immaginarcelo assente dalla scena, ma presente da lontano, nascosto, disperato. E sebbene lontano lui l’ha visto morire, e non ha potuto far niente. Forse il disagio, la rabbia, e l’impotenza che prova nel suo cuore è tale, che possiamo immaginacelo in giro per Gerusalemme, per questo l’evangelista ci informa che non era con loro quando Gesù venne v. 24.
Otto giorni dopo Gesù torna, questa volta Tommaso era con loro. Gesù non sceglie di andare privatamente da Tommaso, aspetta che sia con gli altri discepoli. Gesù si manifesta privatamente per preparare il terreno alla sua manifestazione pubblica, ma non al mondo intero, ancora non è giunto il tempo, ma a quella piccola comunità che rappresenta il nucleo nascente della Chiesa. Il vero peccato di Tommaso non sta nel non credere che Gesù potesse risorgere, quanto non credere a ciò che i suoi fratelli gli hanno annunciato. Tommaso si è chiuso all’ascolto della Parola annunciata, la rifiuta, in tal maniera non può dirsi apostolo. Paolo ci insegna: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15, 3-5), se Tommaso non ascolta e non crede nel mistero pasquale a lui annunciato, non potrà essere apostolo.
«Mio Signore e mio Dio» v.28, non sono le parole di chi è rimasto folgorato e meravigliato, sono invece una vera professione di fede, che Tommaso professa a se stesso e a noi, suoi stimatori di venti secoli dopo. Tommaso professa e annuncia chi è veramente Gesù. Con il termine Signore (=Kyrios) i greci avevano reso il sacro nome YHWH, che non può essere pronunciato, mentre con Dio (=Theos) avevano reso l’equivalente ebraico Elohim. Tommaso non ci dice che Gesù è un rabbino, un maestro, il re d’Israele, il Figlio di Dio. Confessa e annuncia, invece, che Gesù è il Signore, che ha parlato a Mosè, e il Dio dei padri. Gesù l’aveva detto: «quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28), e la fede di Tommaso, e periamo anche la nostra, si è svegliata.
«Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» v.29 questo ultimo verso lo spieghiamo ricorrendo ad un antico insegnamento rabbinico, secondo il rabbino Shimon ben Lakish (250 d.C.): «il proselito [il nuovo credente] è più caro a Dio di tutti gli Israeliti che erano nel Sinai. Perché, se quel popolo non fosse stato testimone del tuono, delle fiamme, del fulmine, della montagna scossa e degli squilli di tromba, non avrebbe accettato il precetto di Dio. Eppure il proselito che non ha visto nessuna di queste cose, viene e si da a Dio e accetta il precetto di Dio» (Brown, 1322).
(don Emanuele Spano')