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Emergenza Corona Virus > Marzo 2020
Riflessione Vangelo del 21 03 2020
La parabola del Vangelo di oggi è propria del materiale di Luca per questo non la troviamo negli altri sinottici. Essa ha un chiaro intento didattico: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri» (v. 9). La situazione di partenza: due uomini si trovano nello stesso luogo di culto per mettersi di fronte al loro Dio e per confrontare con Lui la loro vita.
La preghiera del fariseo
Prima di farci ascoltare le parole, l’evangelista scatta una fotografia del fariseo in preghiera: sta in piedi e, visto che il pubblicano stava a distanza, lui era nella parte anteriore del luogo sacro. I suoi sentimenti li comprendiamo dalle sue parole. Ascoltiamolo:
«O Dio, ti ringrazio». Inizia molto bene la sua preghiera, il fariseo non chiede nulla e si dimostra riconoscente. D’altronde, che cosa dovrebbe chiedere? Nulla gli manca, è colmo di beni, vive alla presenza di Dio, adesso nella preghiera, ma anche nel resto della sua vita; la Legge di Dio è la sua unica preoccupazione; non ha peccati e moltiplica e sue buone opere. Di fatto egli attesta la verità, non è un ipocrita. Per usare una terminologia biblica, egli è un «santo» e un «giusto». Egli ne è convinto, e sa che per tutto ciò avrà in premio la vita eterna. Non ha proprio nulla da invidiare a quel pubblicano, dalla vita facile. Preferisce la propria. Ringrazia Dio di tutto ciò, e questo è bello.
Il giudizio della sua coscienza gli assicura che in lui tutto va bene e di conseguenza non c’è motivo alcuno per chiedere perdono. Nemmeno lo sfiora il dubbio che ci possa essere qualche ombra a turbare la sua condotta e il suo rapporto con Dio o con gli altri. Gli altri “esistono” e “sono ricordati” solo per fare risaltare la loro malvagità, condensata nei tre peccati tipici di furto, ingiustizia e adulterio. Rappresentante classico di questa genia di persone è l’esattore di tasse che si trova in fondo al tempio a pregare. Costui è la personificazione vivente dei peccati degli uomini. Da notare che il fariseo, oltre che sentirsi esente da qualsiasi colpa, si permette di ergersi a “giudice degli altri”, usurpando un diritto che appartiene unicamente a Dio, il quale solo conosce il cuore degli uomini. Infatti il giudizio del fariseo si fonda su un modo comune di pensare nei confronti dei pubblicani, non è detto che abbia una conoscenza diretta dell’interessato.
Non tutto convince. Il luccichio del metallo non garantisce ancora la buona qualità del prodotto. Di fatto la sua preghiera, analizzata più in profondità, rivela il ‘peccato originale’ che si rende visibile in due ‘crepe’. La prima consiste nel fatto che tutta la sua preghiera non supera il perimetro dell’io: «Io ti ringrazio... io non sono come gli altri... io digiuno, io pago...». Il fariseo si mette come soggetto di tutti i verbi; è così perfetto che Dio, davanti a lui, si trova ridotto allo stato di complemento. Egli parla a Dio, parla del pubblicano, ma sempre e solo con esclusivo riferimento a se stesso («pregava tra sé»). Anche il ringraziamento è espressione compiaciuta del suo stato d’animo soddisfatto. In questa luce, tutto dice di uno che agisce nei riguardi di Dio come qualcuno che ha un conto aperto, documenta il digiuno, la decima e la sua integerrima osservanza della Legge in attesa di un contraccambio: la vita eterna (cfr. 18,18). Viene costruito un rapporto del dare e dell’avere e non sulla gratuità del dono.
La seconda crepa della sua preghiera sta nello spietato giudizio di condanna nei confronti degli altri. Percepiamo qui l’acuto stridore con la vera preghiera che è comunione con Dio e, suo tramite, comunione con gli altri. Il fariseo pensa di costruire un rapporto con Dio, snobbando il rapporto con il fratello. Egli non si trova sicuramente in sintonia con quel Dio che, come insegna Gesù in Luca, è misericordia; di tale misericordia devono accendersi coloro che gli sono figli (cfr. 6,36). Più che una preghiera, quella del fariseo è un vacuo soliloquio.
La preghiera dei pubblicano
Quella del pubblicano è piuttosto una ‘controfigura’ con il chiaro intento di esaltarne il contrasto. Anche del pubblicano si dà dapprima una ‘fotografia’ e quindi lo specchio dei suoi sentimenti attraverso le sue parole.
Se il fariseo è venuto al tempio per ringraziare, lui è venuto per ‘confessarsi’. Si prepara stando in fondo al tempio «fermatosi a distanza», segno evidente di indegnità a procedere oltre, con gli occhi rivolti verso il basso e battendosi il petto, ideale contenitore delle sue magagne; infatti, secondo Mc 7,21, il petto è la sede del cuore inteso come l’io profondo, l’io decisionale, da cui proviene ogni scelta e quindi il bene e il male.
Il pubblicano pronuncia una sola frase: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». È una preghiera rivolta a Dio. Non ha nulla per cui vantarsi e non ha motivo per considerare gli altri. Lui e Dio: il suo stato di consapevolezza e la fiducia nel Dio misericordioso. Gli altri esistono nella sua preghiera come “vittime”, perché, dicendosi peccatore, implicitamente accoglie “gli altri come vittime del suo peccato”.
Esplicitamente troviamo una parola semplice ed essenziale: «Perdonami», «Abbi pietà di me». Per quale motivo Dio dovrebbe perdonarlo? Il testo non dà esplicita motivazione; la tradizione biblica fornisce il motivo che è sempre unico: «per amore del tuo nome» (Sal 79,9). Il motivo del perdono non si trova mai nell’uomo, nei suoi meriti o nelle penitenze con cui vorrebbe riparare il suo peccato. Nessuno ha la capacità di riparare il male fatto. L’unica àncora di salvataggio è l’umile richiesta di perdono di Colui che ha dichiarato per mezzo del suo profeta: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio e non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18,23). E Dio, perdonando, dimostra di essere il Santo, perché vince il male, riabilita l’uomo, lo rimette in una giusta relazione con sé. Lo sconquasso del peccato sta proprio nell’interrompere la relazione con Dio, come ricorda con finezza teologica il giovane della parabola del Padre buono: «Ho peccato contro il cielo e contro di te ...» (15,18).
Il pubblicano è il tipo del povero: non possiede nulla in se stesso può solo mettere totalmente la sua fiducia in Dio. In lui c’è un vero confronto con Dio: mettendosi alla "sua presenza, si sente interpellato da lui e vede con chiarezza quello che è. La sua preghiera è una vera risposta a Dio: «Si, sono peccatore; ma abbi pietà di me».
Il giudizio di Gesù
La conclusione giunge al v. 14 con un «Io vi dico» che introduce il giudizio di Gesù: «Io vi dico: questo tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro». Si badi bene che qui non si dice ‘giusto’ ma ‘giustificato’, cioè graziato, messo in una giusta relazione con Dio. Se questo è vero, il testo vuole insegnare quali sono le condizioni per essere in una giusta relazione con Dio, per essere oggetto del suo favore, per ricevere il perdono dei propri peccati, per essere sicuri di essere in grazia con Dio. L’errore del fariseo è di mettere la fiducia solo in se stesso, e di considerare le sue opere come la causa della salvezza, mentre sono soltanto una conseguenza dell'essere già in una situazione di salvezza.
Il pubblicano è davvero un peccatore; prende coscienza del suo peccato; vorrebbe colmare la distanza che c’è tra lui e Dio, sa che non può fare nulla per riparare il peccato, può solo dare segni di pentimento, atti di penitenza, rinunce al male..., però solo Dio può togliere il suo peccato. Egli lo sa e si rimette alla misericordia divina. Questa è la conversione a cui Dio, in Gesù, ci chiama. Il cristiano non è un uomo ‘giusto’, bensì un ‘giustificato’, non è un essere ‘grazioso’ bensì un ‘peccatore graziato’.
Gesù garantisce che il pubblicano torna a casa perdonato, grazie al suo atteggiamento di umile riconoscimento di se stesso. Gesù fa pure conoscere che il fariseo torna a casa con la propria colpa, anzi con una in più, perché ancora una volta è stato tanto miope da non accorgersi che anche lui è peccatore, che le sue opere buone e valide non sono da sole sufficienti a garantire la salvezza.
Anche oggi, alle 12 celebrerò la divina Eucaristia