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Riflessione 23 03 2020 Vangelo Lunedì della IV settimana di Quaresima
Il racconto del Vangelo di lunedì della quarta settimana di Quaresima, trova il suo contesto nel viaggio di Gesù con i discepoli in ritorno da Gerusalemme. Passati dalla Samaria (incontro con la Samaritana 4,1-42), si avviano verso la Galilea.
L’evangelista, nonostante abbia affermato che a Gerusalemme Gesù aveva compiuto vari segni (4,45) annota questo miracolo come “il secondo” (4,54). Possiamo trovare una spiegazione nella prima conclusione del Vangelo: “molti altri segni fece Gesù … questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (20,31). Cioè, l’autore riconosce a questo episodio un significato eminente per illuminare il mistero di Gesù. Il testo mostra la vittoria della vita sulla morte per mezzo di Gesù.
Si tratta anzitutto della vita in senso fisico. Secondo la Bibbia, la malattia (4,46) è già una lunga mano che la morte stende sull’uomo; nel racconto si accenna due volte alla malattia con riferimento alla morte: “stava per morire” (v. 47), “prima che il mio fanciullo muoia” (v. 49), ma a questo si contrappone l’annuncio di Gesù nel v. 50 che non è “tuo figlio è guarito” (cfr. v. 47), ma “tuo figlio vive”. Questa formula viene ripresa al v. 51 e nel finale come una citazione (v. 53).
Il tema «vita» è già annunciato nelle pagine precedenti: nel colloquio di Gesù con Nicodemo, in una parola del Battista oppure nella qualificazione dell’acqua «viva» (3,15.16.36; 4,14.36). A questi si aggiunge il racconto delle nozze di Cana il quale simboleggia: da una parte la realizzazione, ad opera di Gesù, dell’Alleanza di Dio col suo popolo; dall’altra, col dono della vita del Figlio di Dio “la sua ora”, la vita in senso assoluto che Gesù è venuto a comunicare agli uomini.
Quest’uomo “era un funzionario del re” (v. 46). Il funzionario del re è un personaggio “facente funzioni del re”, perciò ci troviamo di fronte a un uomo di potere. Dunque, non possiamo vedere questo uomo come uno qualsiasi, ma siamo dinanzi a uno che ha del potere a sua disposizione ma scopre che questo potere non gli permette di risolvere la situazione gravosa di suo figlio (t?? ????). Questo uomo, anche se collegato al potere, ha scoperto che c’è qualcosa che il potere non può risolvere. È possibile che anche noi un giorno ci troviamo di fronte a qualcosa che con i nostri mezzi non possiamo risolvere. Qual giorno avremo la possibilità di scoprire che abbiamo dei limiti, perché con tutta la nostra potenza … beni … bellezza … successo … non possiamo risolvere alcune situazioni della vita.
“Gesù gli disse: Se voi non vedete segni e prodigi, voi non credete” (v. 48). Spesso, questa espressione di Gesù, viene letta come un rimprovero, mentre è probabilmente una domanda retorica, cioè: “voi per credere avete bisogno di segni e prodigi!”; infatti, il padre del bambino non la percepisce come un rifiuto, ma come l’inizio di un esaudimento, per questo ripete la sua domanda. In stile giovanneo, la parola di Gesù ha invitato il funzionario a intravedere che non si esaurisce tutto con la guarigione fisica ma al di là c’è una realtà ancor più decisiva: la vera fede.
E sorprendente leggere in questo dialogo un pronome al plurale, un «voi» al posto del «tu». Questo significa che Gesù possibilmente si stia rivolgendo non soltanto all’ufficiale regio ma ad un uditorio più largo che possono essere i galilei, in mezzo ai quali adesso Gesù si trova. Tuttavia, non possiamo escludere che il suo discorso è riferito anche ai lettori … a noi. Questo significa che ci troviamo di fronte a una frase che coinvolge “noi”, la comunità ecclesiale.
Dunque, Gesù orienta l’ufficiale a una realtà più alta, a un «credere» che nel racconto si dimostra poi legato a un «vivere» opposto alla morte. Infatti, il racconto è inserito in una sezione il cui filo conduttore è il passaggio dalla “fede basata sui segni” alla “fede nella parola di vita”; e tale è veramente il cammino che compie l’ufficiale in questo testo tutto imperniato sulla Parola vivificante di Gesù.
Il padre del fanciullo possibilmente si aspettava che Gesù sarebbe andato a casa sua, avrebbe fatto delle preghiere o, magari avrebbe imposto le mani e avrebbe così guarito il figlio mentre, niente di tutto questo, ma, con una forza tutta particolare, Gesù gli dice: “Và … tuo figlio vive!”
Gesù non scenderà con lui. Gesù gli dice una “Parola”, quest’uomo scende a Cafarnao senza altra garanzia che la Parola udita, come Abramo (Gn 12,1-4). Gesù gli sta dicendo che suo figlio vive, vive già. Quest’uomo non ha visto niente, deve decidere “se credere o non credere” alla Sua Parola.
Da solo scende verso casa portando questa frase nel cuore, cammina custodendo la Parola di Gesù. Ormai sta arrivando a Cafarnao, gli vengono incontro i servi e gli dicono: “tuo figlio vive”, è la Parola che Gesù gli aveva detto e lui aveva custodito. La prima cosa che lui fa è chiedere l’ora in cui è guarito, verifica subito: “ditemi a che ora è guarito”, loro gli dicono: “ieri, un ora dopo mezzogiorno”. Quell’uomo riconobbe che proprio in quell’ora Gesù gli aveva detto “tuo figlio vive”.
L’ufficiale “credette lui e la sua famiglia”. In questo versetto il verbo “credere” è usato senza complemento, come nella battuta iniziale di Gesù (4,48): il padre del fanciullo è arrivato là dove Gesù voleva che egli giungesse, cioè alla fede in Colui che mediante la sua Parola fa passare dalla morte alla vita, Colui che solo può donare la vita in pienezza. Il miracolo è divenuto «segno» e l’ufficiale regio è entrato nell’ambito misterioso della fede perfetta.
L’adesione piena di quest’uomo a Gesù si compie a distanza: Gesù non è più presente. Se non con la sola Parola che l’ufficiale ha udito, alla quale ha creduto e che ormai “abita in lui”; egli ne riconoscerà il potere sulla morte.
Quest’«assenza» di Gesù in persona e questa «presenza» della sua Parola è piena di significato per i lettori a cui Giovanni si rivolge. La situazione dei credenti dopo la Pasqua è diversa da quella del padre esaudito, perché il periodo in cui Gesù si manifestava mediante «segni» è definitivamente concluso. Secondo il quarto evangelista, il Risorto stesso lo dichiara, poiché egli dice a Tommaso: «Beati coloro che senza aver veduto hanno creduto!» (20,29).
Se la comunità postpasquale non vede più dei segni, quali hanno potuto constatare i contemporanei di Gesù di Nazareth, essa però ha la “sua Parola” sempre presente nel kerygma evangelico, nella liturgia, mentre lo Spirito le dona la comprensione «tutta intera» di questa Parola. Che cosa le dice questo testo? Esso le annuncia che la vita le viene donata adesso, nel momento stesso in cui la parola è ascoltata e accolta. Gesù qui non fa una promessa, non dice: “tuo figlio vivrà”, ma “vive”. Questa è in realtà l’esperienza del credente. Attraverso le prove che si rinnovano, egli sa che, liberato dalla morte definitiva, è vivente della vita stessa di Colui che gli ha rivelato il Padre (1,18). Non ha bisogno di cercare altre «prove» che questa vita abita in lui e che, secondo Giovanni, si esprimerà oggi in una pace e gioia che nessuno può rapire al discepolo.
Il Risorto anche a noi affida una Parola che fa costantemente eco nella nostra vita, ogni qual volta l’ascoltiamo, la pensiamo la percepiamo come chiamata alla nostra fede. Con fiducia camminiamo custodendo la sua Parola in noi.
Oggi, alle 12 celebrerò la divina Eucaristia in comunione con tutti voi